7. Il cuore di Napoli
- centericsilla
- 19 ott
- Tempo di lettura: 5 min

Dopo un pranzo leggero e semplice – un buon piatto di spaghetti al pomodoro e un po’ di insalata di mozzarella – la zia disse a Beni:
– Ricordi piccirill, che ieri ti ho parlato del tufo, che sotto Napoli si nasconde una città completamente diversa?
Beni annuì, ma la zia continuò a raccontare, con quello sguardo particolare negli occhi che fa vivere le storie.
– Sai, tanto tempo fa, ai tempi degli antichi Greci, fu scoperto questo tipo di roccia morbida e facile da scavare. Poi i Romani continuarono: scavavano tunnel e serbatoi d’acqua, e da quei cunicoli nacque una vera città sotterranea.
– Ma perché scavavano dei buchi? – chiese Beni.– All’inizio per raccogliere acqua – rispose la zia. – Ma secoli dopo, quando arrivarono le guerre, quei tunnel ebbero una nuova vita. Durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la città fu colpita dalle bombe, i napoletani si rifugiarono sotto terra. Immagina, vissero lì per settimane: cucinavano, cantavano, i bambini giocavano tra le pietre. Ancora oggi sui muri si vedono quei piccoli disegni che hanno inciso: sole, casette, faccine sorridenti…
– I bambini li hanno disegnati? – chiese Beni a bassa voce.
– Sì – annuì la zia.
– Perché loro sapevano meglio di chiunque altro che anche nel buio si può accendere una luce.
Per un attimo rimasero entrambi in silenzio. Poi la zia parlò di nuovo, più piano, come se svelasse un segreto:
– C’è anche una leggenda. Si dice che quei bambini, che giocavano ridendo qui sotto mentre lassù imperversava la guerra, abbiano lasciato un po’ di luce. La luce che da allora brilla ancora nel tufo. La gente la chiama: il cuore di Napoli. La città non vive nelle case, ma in chi sa ridere anche al buio.
Gli occhi di Beni si spalancarono.
– E davvero c’è quella luce?
– Chi ci crede, forse la vedrà – rispose la zia sorridendo.
– La domanda è: ci credi tu?
Beni annuì, stringendo più forte la mano della zia.
– Allora, vieni piccolo – rise la zia –, andiamo a vederla insieme!
Scendendo i freddi gradini di pietra, l’aria diventò umida e delle gocce leggere battevano sulle rocce. Dalle pareti emanava una debole luce, come se qualcosa vivesse davvero laggiù.
All’improvviso sentirono un rumore. Un ragazzo si avvicinò, con una torcia in mano.
– Ciao! – salutò allegramente.
– Io sono Beppe. Mio padre lavora qui come guardiano. Sono venuto tante volte con lui, conosco questi cunicoli come le mie tasche!
Gli occhi di Beni si illuminarono.
– Allora sicuramente conosci qualche segreto! Beppe fece l’occhiolino.
– Certo. C’è una porta che pochi hanno visto. Sulla parete c’è un’iscrizione, e si dice che quei bambini l’abbiano incisa durante la guerra.
La zia sorrise e fece un cenno. – Andate piano!
I due ragazzi si avviarono lungo il corridoio stretto. La luce della torcia danzava sui muri, e qua e là sembrava che i vecchi disegni prendessero vita.
Finalmente, dopo una curva, videro la porta di pietra. L’iscrizione era sbiadita, ma ancora leggibile:
“Solo chi domanda, cerca e avanza ridendo troverà la luce.”
Beppe sorrise.
– Si dice che questo messaggio sia per chi non ha paura del buio.
Beni passò la mano sulla fredda pietra, sentendo un calore sottile, come se nel cuore della terra un piccolo lume ancora pulsasse, come ricordo delle risate dei bambini.
Scorrendo le dita sulla porta, mormorò:
– Domanda, cerca e avanza ridendo… Ma cosa può significare?
– Forse significa che non bisogna avere paura – disse Beppe.
– A volte per trovare la luce bisogna prima attraversare l’oscurità.
In quel momento si sentì un leggero scatto, come se la pietra si fosse mossa. I ragazzi sobbalzarono. Una fessura apparve accanto alla porta.
– Guarda! – sussurrò Beni eccitato.
Insieme spinsero il pesante battente. Dietro, si aprì una piccola stanza. L’aria era fredda e polverosa, ma sui muri brillava una luce tenue, come se le pietre emanassero luce da sole.
Beni si avvicinò e vide: le pareti erano piene di disegni dei bambini. Non semplici linee, ma piccole storie: una famiglia insieme, un gatto, una palla, un sole, e la parola “Speranza”.
– Sono quei disegni… – disse Beppe commosso. – Mio padre raccontava che durante la guerra i bambini si rifugiavano qui. Disegnavano per non avere paura.
– E forse così custodivano la luce – sussurrò Beni.
In quel momento la luce della torcia tremolò. I ragazzi si guardarono negli occhi, e Beni rise piano.
– Ora ci stanno davvero mettendo alla prova…
Proprio mentre lo diceva, accadde qualcosa di straordinario. Su una pietra con un piccolo cuore disegnato, si accese una luce dorata e tenue. Non abbagliante, ma come una candela in una chiesa buia.
Beppe e Beni la osservarono a bocca aperta.
– È lei! – disse Beppe a bassa voce.
– Il cuore di Napoli…
La luce si mosse lentamente sulle pareti, come se ogni disegno prendesse vita. Per un attimo, i ragazzi sentirono le risate del passato, dei bambini che si erano nascosti lì. Poi la luce si spense, lasciando solo la torcia a illuminare la stanza.
Beni inspirò profondamente.
– Sai, credo che il cuore della città non sia fatto di pietra – disse piano. – Ma delle persone che non si arrendono mai.
Beppe annuì.
– Sì… e ora anche noi l’abbiamo visto.
Nella piccola stanza sotterranea tutto si fece silenzioso. La minuscola luce sul cuore della pietra continuava a pulsare piano, poi svanì, come se si fosse riposata. Beni e Beppe la guardarono, sentendo che ciò che avevano visto era più della semplice luce: era l’anima della città, memoria del passato.
– Andiamo – sussurrò infine Beppe.
– Sta per fare sera.
I due ragazzi tornarono sui lunghi e freschi corridoi. La luce delle torce danzava sulle pietre umide, e Beni sentiva che ogni passo li avvicinava un po’ di più alla superficie, alla luce che li aspettava fuori.
Salendo le scale, si udirono i suoni serali della città: rombi di motorini, qualcuno che cantava dal balcone, e l’odore di pizza appena sfornata nell’aria.
La piccola porta dietro il tempio si aprì finalmente, e gli ultimi raggi del sole li colpirono. Il cielo arancione illuminava Napoli. Beni socchiuse gli occhi, come se si svegliasse da un lungo sogno.
La zia li aspettava sorridendo.
– Allora, avventurieri, cosa avete trovato laggiù? – chiese.
Beni e Beppe si guardarono e dissero solo:
– La luce.
La zia sorrise, e mentre si avviavano verso casa, Beni si fermò all’improvviso. Alla base delle scale, dove la cornice della porta toccava terra, qualcosa brillava.
– Aspettate! – esclamò.
Si chinò e sollevò un piccolo sasso tra la polvere. Era semplice, ma al centro un disegno naturale formava un cuore. L’ultimo raggio di sole lo illuminava, e il sasso rifletteva la luce calda, dorata e dolce.
Beppe rimase senza parole.
– Quella pietra… – sussurrò.
– Deve venire da lì… dalla parete.
Beni passò il pollice sul cuore. La pietra era calda, come se custodisse ancora il calore della luce sotterranea.
La zia si avvicinò e sorrise dolcemente.
– Sapete, il cuore di Napoli non batte solo sotto terra. Chiunque lo trovi, lo porta con sé – qui – e toccò il petto di Beni.
Beni annuì. Ripose il sasso nella tasca e guardò un’ultima volta la porta dietro il tempio. Il sole tramontava tra le case, e le luci della città cominciavano a illuminarsi come mille piccoli ricordi nel buio.
– Beppe – disse a bassa voce. – Ora sappiamo che la luce non è solo laggiù.
I due ragazzi si allontanarono per le stradine strette, con il loro riso che risuonava tra i muri di pietra, e chissà, nel profondo dei cunicoli nel tufo, un piccolo cuore – forse solo una pietra – continuava a brillare pian piano.

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